domenica 19 novembre 2017

Corrispondenza da Atene per il 17 novembre

Abbiamo ricevuto dal nostro corrispondente speciale da Atene, socio giovane Edoardo Trombettieri, una interessante corrispondenza da una città in fiamme in occasione delle proteste che ogni anno si ripetono per le manifestazioni civili di ricordo del 17 novembre 1973, giorno dell'occupazione del Politecnico e della cacciata degli studenti lì asserragliati da parte dei carrarmati dell'esercito. L'articolo è stato pubblicato sul blog politico studentesco CAPITANO LUDD che fa riferimento, fra gli altri, anche ad Edoardo, il quale ci ha concesso di riportare l'intero testo, le foto e i filmati, tutto opera del suo ingegno. Per questo lo ringraziamo.


ΨΩΜΙ (PSOMI), ΠΑΙΔΕΙΑ (PEDIA), ΕΛΕΥΘΕΡΙΑ (ELEFTHERIA): PANE, EDUCAZIONE E LIBERTÀ

di Edoardo Trombettieri

Dal secondo dopoguerra la destra è stata la prima forza politica in Grecia, vincendo le elezioni fino agli inizi degli anni ‘60. Dopo aver represso e sconfitto le forze comuniste che tra gli anni 1946 e 1949 avevano dato vita ad una guerra civile, le forze di destra misero in atto una politica di tipo autoritario per governare il paese, forti e sicuri del sostegno e dell’approvazione delle forze conservatrici e monarchiche. Il protagonista nei primi anni ’60 è Karamanlis, al governo quasi ininterrottamente per otto anni. Tuttavia, dopo quasi due decenni di potere di destra, il partito centrista e più moderato guidato da Georgios Papandreou era riuscito a vincere le elezioni del 1964, segnando la fine del governo di Karamanlis e della destra. Papandreou dunque diventa capo del governo, suscitando dubbi ed inimicizie presso gli ambienti più conservatori del Paese. Da un lato, i militari avevano il timore che eventuali riforme di matrice liberale potessero intaccare il loro grande potere, dall’altro il re Costantino II era perplesso sui risultati elettorali. Tutto questo caos portò il re a costringere Papandreou alle dimissioni, appena un anno dopo dalla sua nomina. Dopo tanti tentativi di formazione di un nuovo governo, vengono indette dal re elezioni anticipate. Per timore che le forze di sinistra potessero vincere le elezioni insieme al centrista Papandreou, numerosi furono gli atti per fermare, o perlomeno rallentare, i tempi pre-elettorali. Costantino II dunque decide di temporeggiare e  nel 1967 i vertici militari guidati da Papadopulos progettano un colpo di Stato, forse con l’appoggio dello stesso re, messo in atto poco più tardi nella notte tra il 20 e il 21 aprile dello stesso anno, occupando i punti strategici della città di Atene e arrestando le forze di resistenza. Al mattino del 21 aprile le forze militari chiedono al re la legittimazione del golpe; il re tentenna, ma solo per poche ore. Infatti, nomina lo stesso giorno come primo ministro un ex magistrato ultra conservatore e fervente monarchico Kostantinos Colias. I militari ora possono creare il regime: le elezioni sono cancellate, la costituzione viene abrogata e viene istituita la legge marziale in tutta la nazione. Pochi mesi dopo il re organizza un contro golpe per ristabilire l’ordine, che però fallisce miseramente, portandolo all’esilio, che inoltre aveva permesso ai vertici militari, e in particolare a Georgios Papadopulos, di prendere il potere in prima persona. La dittatura dei colonnelli durerà per sette lunghi anni, e cadrà solo nel 1974, dopo una rivolta scatenatasi a seguito della bruciante sconfitta dei greci contro i turchi per la conquista dell’isola di Cipro.
Il 14 novembre del 1973 un gruppo di manifestanti ateniesi, formato soprattutto da studenti universitari e giovani, decise di ribellarsi alla giunta militare che aveva proibito il diritto di associazione studentesca e di elezione dei consigli universitari. La protesta si è protratta per tre giorni all’interno del Politecnico ateniese, dove dei giovani studenti universitari erano riusciti a creare un sistema radio che avrebbe permesso di comunicare con la città intera. Infatti, attraverso questa radio gli studenti sollevarono l’opinione pubblica contro la dittatura. “Psomì, Pedìa, Eleftherìa” (ΨΩΜΙ, ΠΑΙΔΕΙΑ, ΕΛΕΥΘΕΡΙΑ), rispettivamente Pane, Educazione e Libertà, era lo slogan che gli studenti avevano lanciato in quei giorni. Tuttavia,  il 17 novembre un carro armato indirizzato e inviato dalla giunta abbatte i cancelli della facoltà reprimendo nel sangue la protesta. Quel giorno avrebbe segnato la storia della Grecia, diventando così un giorno di commemorazione ai nostri tempi, in cui i più ricordano le vittime della repressione e  porgono un fiore davanti al Politecnico, partecipando ad un grande corteo commemorativo che ha inizio in zona Panepistimio, zona universitaria, fino ad arrivare ad Exarchia, quartiere anarchico, nonché luogo dove si trova il Politecnico; gli altri, gli anarchici, colgono l’occasione per manifestare il proprio dissenso contro quelle che sono ritenute le dittature del XXI secolo, quali la BCE, l’UE, la Nato e tutte le Istituzioni Internazionali che sopprimono le “libertà” nazionali.
Dunque, come viene vissuto realmente al giorno d’oggi il 17 novembre? E, soprattutto, cosa significa?



 


















Ciò che dovrebbe rappresentare un giorno di riflessione sui valori di libertà, pace e non-violenza, in realtà si trasforma in una vera e propria guerriglia urbana tra poliziotti antisommossa e anarchici. Molotov, manganelli, gas, bombe e “auto-kamikaze” inondano il quartiere anarchico Exarchia (ΕΞΑΡΧΕΙΑ) per tutta la notte. I protagonisti di quello che sembra un vero e proprio teatrino organizzato e voluto da entrambe le parti, sono i poliziotti da un lato, e i finti anarchici dall’altro. Finti, a mio parere. L’anarchia è altro.       Il “gioco” prevede strategie e tempi da rispettare: gli anarchici presiedono durante il corteo e sfilano in marcia come civili. I poliziotti formano due schiere, una a destra e una sinistra, schiacciando gli anarchici al centro, che continuano la sfilata. Giunti quasi ad Exarchia, vengono lanciate le prime bombe, si svolgono i primi combattimenti.

Così, gli anarchici giungono nella piazza principale di Exarchia, dove attendono l’arrivo della polizia, che non tarda. Ed ecco che “si scatena l’inferno”. Il quartiere diventa rosso e sommerso dalle fiamme, e gas lacrimogeni sparsi per tutto il perimetro, rendendo l’aria irrespirabile. Poliziotti e anarchici, muniti di maschere antigas e mazze, combattono fino a notte inoltrata. Vince chi conquista la piazza principale. Il tutto, ovviamente, con indifferenza più totale della gente comune che siede ai ristoranti limitrofi, che decide di godersi lo spettacolo dalla vetrina. Questo evento, o gioco, è sostenuto da anarchici di tutto il mondo: infatti, un vero e proprio “turismo anarchico” si è diffuso in questi anni. Americani, spagnoli, inglesi, francesi, tedeschi e italiani si recano ogni anno puntualmente in quel di Atene solo per combattere questa guerra, o meglio, per vincere il gioco.


Insomma, quella che dovrebbe essere una giornata commemorativa si trasforma in una vergogna. Non posso credere che poliziotti e anarchici davvero si divertano a combattere, ad ammazzarsi. Credo sia il culmine della stupidità umana. Quale senso avrebbe picchiarsi a sangue e danneggiare un intero quartiere, oltre che l’università, per puro divertimento?
Eppure, questo è proprio ciò che ho visto con i miei occhi. Non potrò mai dimenticare questo evento. Ho visto poliziotti catturare e picchiare a sangue un anarchico; ho visto anarchici lanciare auto in fiamme contro i poliziotti; ho visto gente fare pausa con un panino e una birra, tra un pugno e l’altro, per poi tornare a combattere; ho sentito ragazze urlare, e piangere. Ho visto l’impensabile. Un uomo quasi morto davanti a me, steso a terra, respirava a stento. Più di venti arresti. I feriti? Beh, non credo servano numeri.
Credo che questi siano semplicemente fanatici di guerra e fomentatori di violenza. Quelli che partecipano al gioco non sono anarchici né poliziotti. Sono stupidi. Pazzi. Violenti. Vandali. Allora, non posso far altro che pensare che sia un bene che si chiudano in un quartiere e si ammazzino a vicenda.     Ma una considerazione va fatta, a mio parere, e mi appello a tutti coloro che al giorno d’oggi giocano a fare “i santi ribelli”, credendo che combattere ed utilizzare la violenza possa davvero servire a qualcosa, oltre che a rientrare nella categoria dei “ragazzi-in” della società odierna. Bene, c’è chi gioca a fare il santo ribelle, e c’è chi ribelle lo è davvero. Una delle differenze che ho notato tra i giovani d’oggi, è che c’è chi veste da ribelle, parla da ribelle, ma scappa alla prima occasione; pubblica tutta la sua vita sui social, e comunica al mondo che sta per combattere contro la polizia o contro un altro schieramento, così da sembrare duro, forte, coraggioso. Dall’altro lato, esiste un altro tipo di giovane, che ribelle, e pericoloso, lo è per davvero. Vieta severamente l’utilizzo degli smartphone, la riproduzione di video e altro. Si resta in anonimo, si combatte insieme. Non dico che l’atteggiamento di quest’ultimo sia lodevole e ammirevole; dico che a volte bisognerebbe evitare di vestire i panni del ribelle per puro gioco o per pura moda, perché non c’è niente di cui vantarsi. Ciò che ho visto e vissuto  non è stato un gioco. Credo di non  essermi mai trovato in così tanto pericolo, e il tutto  concentrato in una sola zona, e senza via di fuga. Non è stato divertente. Per niente.
Pertanto,  l’appello che questo articolo vuole lanciare è proprio questo: la violenza non rende l’uomo forte e coraggioso. Ci sono tanti modi per protestare, e tanti altri  ce ne sono per manifestare le proprie idee. Inoltre, anche il ribelle, che vuole proclamarsi anti-establishment e anticonformista, rientra in un conformismo che lo contraddistingue. Chi vuol far parte di questo mondo, si veste in un certo modo e  usa specifiche parole. Non è negabile!   Non voglio vietare a nessuno di entrare a far parte di mondi violenti ed estremisti; voglio solo fermare l’emulazione di questi. Imitare chi è violento per moda è semplicemente da idioti.
Quello del 17 novembre, ragazzi, è stato un gioco. Ma la vita, beh, quella non lo è!


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Abbiamo scelto questa canzone perché in qualche modo ci rappresenta, anche se è una condizione piuttosto comune a molti nella nostra epoca. Anche noi quando dobbiamo riunirci, per un motivo o per l'altro, per impegni di uno o dell'altro, troviamo difficile se non impossibile incontrarci. Inoltre è cantata da un gruppo di bravi artisti affiatati che speriamo possano portare fortuna alla nostra associazione. Cliccando qui possiamo trovare il testo e la traduzione in italiano